Dal mio vissuto con i miei piccoli pazienti sono nati alcuni alcuni scritti:

Qualche pallido raggio di sole filtrava timidamente tra le persiane socchiuse improvvisando con il suo fascio luminoso un palcoscenico immaginario sul quale danzavano minuscole particelle i polvere.

Giulio sembrava dormire avvolto nel silenzio della penombra della stanza, rotto solo dal monotono ritmare del suo respiro affaticato. Ogni tanto con un lieve sussulto, forse un’emozione improvvisa o una corsa nei prati del suo sogno, poi tutto di nuovo s’assopiva.

Sua madre era lì, funambola cieca, prigioniera del tempo. Con una mano accarezzava i capelli sparsi sul cuscino, e fissava con gli occhi vuoti la goccia della “flebo” che non voleva scendere: l’osservava arrestarsi per interminabili secondi per poi cadere risucchiata nel tubicino che andava a perdersi nelle piccole vene. Vagava nel buio di una notte di pioggia come un can randagio in cerca i riparo, fermandosi, ogni tanto, ad annusare l’aria, per poi riprendere delusa, il suo pellegrinare senza meta.

Quel vomito mattutino di pochi mesi prima, all’inizio sottovalutato, e poi scambiato per un banale pretesto per non andare a scuola, piano piano, s’era infiltrato nelle crepe del suo oggi scavando solchi profondi nelle sue certezze per poi spingersi sempre più giù, aprendo una voragine che d’improvviso aveva fatto franare la sua vita, quel giorno, in ospedale.

Tante parole e abbozzi di sorrisi, come in una scena dei tanti film già visti: questa volta però il medico non era un attore e lei era la  protagonista, per accompagnarla per mano, là in fondo, nel baratro in cui ora i trovava.

Medulloblastoma era allora una parola sconosciuta dal sapore un po’ esotico, qualcosa di astratto, d’impalpabile che ora però le pesava più di un macigno che schiacciandola sul fondo del suo pozzo, le impediva risalire alla luce del sole.

 

Una cicatrice rosata risaltava tra i capelli ricresciuti. Giulio prima di Natale aveva lasciato la scuola, i suoi compagni, i suoi giochi, … la sua età.

Era entrato,  solo per pochi giorni, in ospedale, uscendone  un mese dopo con il viso pallido, il capo rasato e un’aureola rossa. I suoi occhi però erano sempre vivi e guizzavano come solo la speranza e la tenacia dei bambini sa fare.

Dopo una caduta rimane una lacrima da asciugare , un ginocchio sbucciato, ma si è subito pronti a ricominciare un nuovo gioco ad inventare una nuova storia.

Ma quella volta, non sapeva perché, tutto sembrava più faticoso, più difficile. Saranno state forse tutte le chemioterapie che lentamente lo indebolivano o lo sguardo bagnato di sua madre che silenziosa lo osservava con le guance rigate o forse i suoi amici che vedeva dalla finestra, giocare a pallone nel sole primaverile.

Ma tutto è possibile nella fantasia degli undici anni, e lui piccolo saggio correva negli unici prati per lui ancora possibili dei suoi sogni, e ogni tanto, prendendo la rincorsa per saltare qualche fosso, sussultava, immobile, nel bianco delle lenzuola.

(Pubblicato su "Casi indimenticabili in Pediatria" 2007)